Riforma del pre-ruolo: unintended consequences? – un articolo di Paolo Liverani
È in discussione al senato il Decreto PNRR 2, che contiene tra l’altro una serie di misure strutturali per l’università, che riguardano il riordino dei settori scientifico disciplinari per quel che concerne l’offerta formativa, le carriere dei ricercatori e il cosiddetto preruolo, cioè quel che può aspettarsi l’aspirante ricercatore tra il dottorato di ricerca e l’agognato miraggio di un posto di ricercatore.
Un importante emendamento al testo è stato presentato dal senatore Francesco Verducci in accordo con la Ministra Messa (https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=18&id=1352127&idoggetto=1352604). Non sappiamo ancora che sorte avrà l’emendamento – che mitiga certi difetti più eclatanti del decreto – ma certamente avrebbe bisogno di una discussione non frettolosa. Mentre infatti sui settori scientifico disciplinari e sul ruolo dei ricercatori la discussione è stata vivace, non è stata valutata a sufficienza quella sul preruolo. In sintesi estrema: vengono aboliti gli assegni di ricerca (che si aggiravano attorno ai 25.000 euro, di durata annuale e rinnovabili) e vengono istituiti i contratti di ricerca (biennali di un costo oscillante tra 37.000 e 40.000 euro l’anno). Questo per sottrarre il post-doc al precariato selvaggio e allo sfruttamento e portare la retribuzione italiana in linea con quelle europee. L’intenzione è assolutamente lodevole, ma è del tutto evidente a chi lavora nell’Università che il provvedimento è destinato a generare esiti esattamente opposti a quelli auspicati.
Distinguiamo qui i settori tecnico-scientifici che hanno la possibilità di attingere a significative risorse esterne da quelli umanistici, che tali possibilità non hanno. I primi paventano la riforma per il fatto che, mentre l’assegnista non necessariamente doveva avere un dottorato, il contrattista – dato il rafforzamento della sua posizione – deve possederlo obbligatoriamente. In questi settori semplicemente non ci sono abbastanza dottori di ricerca per coprire il fabbisogno di collaboratori per i vari progetti.
I secondi, i settori umanistici economicamente deboli per ragioni strutturali, semplicemente non potranno permettersi alcun contratto. Se un docente poteva sperare di ottenere – eventualmente con un cofinanziamento dipartimentale – i fondi annuali per un assegno e magari poteva rinnovarlo l’anno successivo, adesso deve trovare 80.000 euro tutti insieme, cifra assolutamente inarrivabile per più del 90% dei docenti di quest’area. Soluzione? Tagliare radicalmente le ricerche, in quanto – con il carico didattico e gestionale che ha – il docente non può condurre ricerche significative senza un aiuto. Oppure ricorrere alle borse di ricerca (12.000 euro annuali). Non è ancora chiaro se questo sia possibile perché le borse potrebbero essere limitate a chi non ha il dottorato, anche se è assai discutibile se una tale norma sia difendibile giuridicamente. In ogni caso se rimanesse una tale possibilità, tutti utilizzerebbero ovviamente le borse, assai più economiche e che danno garanzie ancora inferiori degli assegni, in quanto non hanno contributi INPS né fanno titolo per i concorsi di ricercatore. Dunque precari ancor più sottopagati e privi di tutela.
Last but not least: non si è considerate che proprio i progetti PNRR e i bandi che ne derivano, nonché i PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, finanziati dal Ministero della Ricerca) senza contare i bandi di fondazioni e istituti privati, prevedono sistematicamente l’assegno di ricerca. Una legge che a metà corsa li mette fuori gioco è destinata a paralizzare tutti questi bandi già avviati o in corso di valutazione (come nel caso de PRIN), in quanto il regime transitorio di sei mesi previsto dall’emendamento non è assolutamente sufficiente a esaurire quelli già in programma o in arrivo.
Sia chiaro a scanso di equivoci che non si contesta la finalità lodevolissima della riforma, ma solo l’assenza – ormai strutturale – di una previsione sul suo impatto. Portare la retribuzione del post-doc ai livelli della Germania sarebbe una cosa grandiosa, ma ci si dimentica che i docenti tedeschi hanno fondi di ricerca che assicurano uno o due assegnisti che li coadiuvino nella ricerca, senza che si debbano arrabattare inseguendo un pulviscolo di bandi per mettere assieme il minimo sindacale. In sintesi: la riforma ha grande ambizione ma è priva di visione sistemica e di risorse adeguate. Un mix letale.
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